Esperienze precoci e fragilità educativa
Questo articolo nasce con l’intento di proporre una riflessione trasversale su un fenomeno sociale oggi sempre più diffuso: l’esposizione precoce dei bambini a esperienze, attività, strumenti e responsabilità inadatte alla loro età.
Non si tratta di puntare il dito contro i genitori, spesso mossi da amore e buone intenzioni, ma di provare a fare luce su quei limiti necessari che, quando vengono superati, rischiano di minare lo sviluppo emotivo dei bambini. E di chiederci, insieme, quanto le attuali tendenze culturali e narcisistiche stiano oggi influenzando molte scelte educative.
Partiamo da un episodio di cronaca, emblematico nella sua drammaticità, e allarghiamo lo sguardo ad altre situazioni meno eclatanti, ma quotidianamente presenti nella vita di molte famiglie.
La cronaca
Nell’aprile 2025 un tragico fatto di cronaca ha profondamente scosso l’opinione pubblica: un padre siciliano ha messo il figlio di quattro anni su una minimoto. Durante un giro, il bambino ha perso il controllo ed è finito contro un muretto, riportando ferite letali. L’uomo, sotto choc, ha dichiarato che si trattava di un gioco, che suo figlio si divertiva, che non aveva previsto il rischio. Questo padre era in buona fede? Sicuramente sì, non abbiamo motivo di dubitarne, ma ha commesso un errore di valutazione che si è rivelato fatale per suo figlio.
Questo tragico episodio riflette una tendenza culturale più ampia: la normalizzazione dell’accesso precoce ad esperienze potenzialmente rischiose o inappropriate, giustificate in nome del divertimento, dell’inclusione sociale o della performance, ma spesso mosse dal desiderio narcisistico dell’adulto di avere un “piccolo compagno” con cui condividere passioni e immagini di successo.
Quando i figli diventano specchi: la genitorialità narcisistica
L’educazione dovrebbe essere un processo asimmetrico e protettivo, in cui l’adulto funge da guida, filtro e confine. Ma oggi, la simmetria emotiva tra genitore e figlio sembra diventata la nuova normalità: i figli diventano specchi, prolungamenti dell’identità adulta, oggetti su cui proiettare sogni, desideri e mancanze.
La genitorialità narcisistica, secondo il pensiero di S. Cooper e di J. Twenge, è una dinamica in cui il figlio viene investito non per ciò che è, ma per ciò che rappresenta: il prolungamento di un sé grandioso.
L’infanzia come consumo
Viviamo in una società in cui ogni fase della vita è colonizzata dal marketing. Fin dalla gravidanza, i genitori vengono bombardati da offerte: app per monitorare il battito fetale, abbonamenti a stimolazioni intrauterine, giochi educativi dai 2 mesi, e così via. Non si tratta di strumenti “cattivi” in sé, ma di prodotti e servizi pensati per alimentare il consumismo, quasi mai, con una reale utilità o finalità educativa.
La logica dominante non è il benessere del bambino, ma il profitto. Ogni nuova offerta spinge a credere che “prima è meglio”: prima si impara a leggere, a parlare inglese, a fare coding, a gestire lo stress, a pianificare il futuro.
La cultura del “prima è meglio” e i suoi effetti
Alcune proposte educative o ricreative, che ad un primo sguardo sembrano perfettamente innocue o addirittura “stimolanti”, osservate più da vicino, sollevano interrogativi profondi sul senso e sull’opportunità di proporle ai propri figli. Si pensi ai corsi di coding online, dai 3-4 anni, venduti come opportunità per “formare i cervelli del futuro”; alle full immersion linguistiche all’estero per bambini già dai 7 anni, “per dare loro un vantaggio competitivo”; ai percorsi sportivi ad alta intensità già a 5 anni, con allenamenti quotidiani; alle competizioni in minimoto già a 7-8 anni perché “è la sua passione”; all’abitudine sempre più diffusa di consegnare uno smartphone a bambini di 4 o 5 anni, perché “così non si sentono esclusi”; all’idea di permettere ai figli di gestire autonomamente il proprio tempo a 9 o 10 anni, “per responsabilizzarli”; o ancora alla creazione di account social personali già a 8 o 9 anni, in nome “dell’educazione digitale”.
In questa cornice, anche attività potenzialmente rischiose come le esperienze outdoor estreme, o l’avvicinamento a discipline motorie complesse in età precoce non sono più considerate come eccezioni, ma come tappe quasi obbligate per non “restare indietro”.
La somma di tutto questo può generare un’accelerazione dell’infanzia che toglie tempo, spazio e struttura a ciò che serve davvero a crescere: la noia, il gioco simbolico, le relazioni libere, l’attesa, la tolleranza della frustrazione, la gestione del fallimento, il contenimento emotivo.
Siamo certi che uno smartphone a 4 anni sia meno pericoloso di una minimoto?
Questa è certamente una domanda provocatoria, ma contiene un interrogativo molto serio. Se la minimoto ha un rischio evidente e visibile, lo smartphone ha rischi meno tangibili ma altrettanto gravi: accesso a contenuti inappropriati, disconnessione dal corpo e dal mondo reale, iperstimolazione, esposizione alla dopamina digitale, dipendenza da feedback esterni.
Come sottolineano recenti ricerche (Odgers & Jensen, 2020; Twenge et al., 2019), l’uso precoce dello smartphone è correlato a peggiori livelli di regolazione emotiva, disturbi del sonno, calo dell’attenzione, ansia sociale. Il rischio, dunque, non è “minore”, ma più difficile da percepire, e per questo più subdolo.
L’adulto come garante della gradualità
In tutto ciò, il punto centrale è la funzione dell’adulto come garante della gradualità. I bambini hanno certamente bisogno di fare esperienze. Ma hanno bisogno di farle nel momento giusto, con la preparazione adeguata e in un contesto di contenimento.
Il problema non è la minimoto in sé, né il coding, né lo sport. Il problema è quando, come e perché queste esperienze vengono proposte.
Come nota il neuropsichiatra infantile Massimo Ammaniti, l’adulto deve svolgere la funzione di mediatore tra il mondo e il bambino: non un ostacolo, ma un filtro affettivo e cognitivo. Quando l’adulto abdica a questa funzione, è il bambino a dover gestire l’impatto del mondo. Troppo presto, troppo tutto.
Anche D. Winnicott, ci ricorda che il bambino ha bisogno di una “madre sufficientemente buona”, capace cioè di adattarsi meglio che può ai suoi bisogni evolutivi, offrendo una presenza stabile, responsiva e affettuosa, ma senza annullarsi né eliminare ogni frustrazione, affinché il bambino possa gradualmente sviluppare tolleranza, autonomia e capacità di gestione delle emozioni, non di una madre (o un padre) “perfetta” che soddisfa all’istante ogni sua richiesta.
Il bisogno narcisistico di “bambini speciali”
Il bisogno narcisistico di alcuni genitori si manifesta in tanti modi sottili:
- bambini “talentuosi” mostrati sui social in performance da adulti;
- frasi come “è un genio”, “è molto avanti per la sua età”;
- scelte educative che puntano all’eccellenza, alla precocità, alla visibilità.
Ma ogni accelerazione ha un prezzo. Come sottolinea la psicoterapeuta statunitense Erika Christakis, l’infanzia è uno spazio evolutivo fondamentale, e non va compresso in nome della performance.
Al contrario sempre più spesso, nella nostra società, assistiamo a situazioni in cui l’esposizione precoce dei bambini a esperienze non adatte alla loro età viene giustificata come forma di crescita o potenziamento. Che si tratti di attività sportive esasperate, viaggi affrontati in solitudine, sovraesposizione sui social, o agende quotidiane serrate e prive di gioco libero, il comune denominatore è una spinta adultocentrica a “farli crescere in fretta”, spesso dimenticando che ogni tappa evolutiva richiede tempi, protezione e gradualità e che la pressione eccessiva verso comportamenti e aspettative da adulti, in età precoce, può ostacolare uno sviluppo sano: i bambini rischiano di diventare più vulnerabili, meno capaci di affrontare da soli le difficoltà e con una precaria regolazione emotiva.
Bambini e adolescenti non sono adulti in miniatura
È una verità semplice, ma oggi sembra sfuggire: i bambini e gli adolescenti non sono adulti in miniatura. Non sviluppano tutti le stesse competenze cognitive, emotive, relazionali allo stesso momento. La neurobiologia ci dice chiaramente che la loro capacità di previsione, di controllo degli impulsi, di valutazione del rischio è ancora in formazione.
Ad esempio, un bambino di 6 anni fatica a prevedere le conseguenze delle proprie azioni, come attraversare una strada senza guardare; un preadolescente può avere difficoltà a controllare reazioni emotive intense in situazioni di tensione o conflitto; e molti adolescenti sottovalutano i pericoli legati a comportamenti rischiosi come la guida spericolata o l’uso eccessivo di dispositivi digitali senza supervisione. Questi aspetti riflettono un cervello ancora in sviluppo, che necessita di tempo, esperienza, guida e contenimento adeguati per maturare.
Piaget, Vygotskij, Erikson: tutti i principali studiosi della psicologia dello sviluppo hanno sottolineato con chiarezza che ogni fase della crescita è caratterizzata da compiti evolutivi specifici, che richiedono tempo, esperienze adeguate e maturazione. Quando questi passaggi vengono anticipati o forzati, si creano disallineamenti tra l’età anagrafica, quella cognitiva, affettiva e sociale del bambino. Tali scollamenti, spesso invisibili a uno sguardo superficiale, sono terreno fertile per la comparsa di problemi emotivi come ansia, oppositività, crisi adolescenziali, drop out scolastici, dipendenze o altri sintomi che vengono trattati come qualcosa da eliminare in fretta, anziché segnali da comprendere. Ma ogni disagio, se letto all’interno della storia di vita e non isolato dal suo contesto, può assumere il significato di un messaggio: un linguaggio alternativo con cui un bambino o un adolescente ci sta comunicando qualcosa che non riesce a esprimere in altro modo. È compito dell’adulto fermarsi, ascoltare, decodificare. Solo così possiamo accompagnare i nostri figli in un percorso di crescita autentica.
Non è una battaglia contro il mondo moderno
Non si tratta di demonizzare la modernità o le novità. Né di sostenere un ritorno a modelli iperprotettivi e chiusi. Il mondo cambia, ed è giusto che anche l’educazione si evolva. Ma il cambiamento richiede consapevolezza e pensiero critico, non adesione acritica a mode, pressioni sociali o logiche di mercato. Del resto che esempio stiamo mandando loro, se ci limitiamo ad adeguarci a tutto ciò che ci viene proposto, senza sviluppare un pensiero critico?
È bellissimo offrire ai nostri figli esperienze nuove, anche sfidanti. È importante coltivare il coraggio, l’autonomia, la curiosità. Ma è fondamentale che queste attività siano realmente pensate per loro, non per i bisogni o i desideri degli adulti. Un’utile domanda da porsi potrebbe essere: “questo serve a mio figlio o serve a me?”
Conclusioni: riprendersi il tempo dell’infanzia
L’infanzia non è solo una fase da attraversare in fretta. È un tempo lento, prezioso, irripetibile, dove si formano i pilastri della personalità, dell’autostima, della fiducia nel mondo. Proteggere un figlio non significa isolarlo, ma offrire esperienze adeguate, opportune, graduali, sensate.
Nel mondo di oggi, fatto di accelerazioni, consumismo e spettacolarizzazione, l’atto più rivoluzionario può essere rallentare, osservare, ascoltare davvero i propri figli. Restituire loro il diritto a crescere senza dover dimostrare nulla. E restituire a noi adulti la responsabilità di guidare, non di delegare alla cultura del “tutto e subito”.
Il criterio guida deve essere il bisogno reale del bambino o del ragazzo, e la sua capacità di affrontare ciò che gli si propone.
Quindi no, non si tratta di tenerli sotto una campana di vetro, né quello di terrorizzare i genitori, o di spingerli verso l’ipercontrollo.
Niente di più lontano dalle finalità di questo articolo.
Sì tratta invece di recuperare il senso della misura, di interrogarsi costantemente su quale sia lo scopo reale di ciò che proponiamo loro: lo stiamo facendo per loro o per noi? Siamo sicuri che siano pronti? Cosa accadrebbe se qualcosa andasse storto? Come gestirebbero l’imprevisto?
Ricordiamoci inoltre che allenare i nostri figli a differire la soddisfazione dei bisogni, ad accogliere il fallimento come occasione di apprendimento, a gestire la frustrazione di un “no” è forse il compito educativo più importante che abbiamo. Ma c’è una domanda fondamentale che dovremmo porci: noi adulti sappiamo davvero reggere la loro frustrazione, o la usiamo come alibi per cedere, per dire sempre sì, per evitare il conflitto e lenire il nostro senso di colpa?
“Il genitore oggi rischia di diventare un ‘coetaneo’ dei figli, più preoccupato di piacere che di educare.”
(Novara, 2014)
La deriva narcisistica della nostra società, che trasforma tutto in immagine, prestazione e confronto, rischia di farci smarrire il bambino reale: quello che ha bisogno di crescere secondo i propri tempi, non di rincorrere le nostre ambizioni o di colmare i nostri vuoti. Educare significa anche saper fare un passo indietro, per lasciare spazio a ciò che serve davvero, non a ciò che ci gratifica come adulti.
Bibliografia essenziale
- Ammaniti, M. (2014). La curiosità non invecchia. Perché l’esperienza non basta. Raffaello Cortina Editore.
- Christakis, E. (2016). The Importance of Being Little. Viking Press.
- Novara, D. (2014). Urlare non serve a nulla. BUR.
- Winnicott, D.W. (1960). La preoccupazione materna primaria. In Sviluppo affettivo e ambiente. Armando Editore.
- Twenge, J.M., Martin, G.N., Spitzberg, B.H. (2019). Trends in U.S. Adolescents’ Media Use and Associations With Mental Health. J Adolescent Health, 64(2).
- Odgers, C.L., Jensen, M.R. (2020). Annual Research Review: Adolescent mental health in the digital age: facts, fears, and future directions. J Child Psychol Psychiatr, 61(3).
- Vygotskij, L.S. (1934/1987). Pensiero e linguaggio. Giunti.
- Piaget, J. (1972). Lo sviluppo mentale del bambino. Newton Compton.
- Cooper, S. (2010). Narcissism and the Culture of Self. In Journal of Psychoanalysis.
- Lingiardi, V. (2017). Mindscapes: psiche nel paesaggio. Raffaello Cortina.
Dott.ssa Angela Marchetti Psicologa Psicoterapeuta, Terapeuta EMDR Palermo